
-Ti è piaciuto il documentario?
Enrico Fontanelli: Non è facile per me dirlo perché tendo a pensare che sia meglio guardare al futuro piuttosto che al passato per cui è anche bello confrontarsi con un passato non troppo passato. Proprio oggi riascoltavo ‘Bachelite’, lo faccio di rado ma è appena uscita l’edizione in vinile quindi volevo sentire come suonava…ed è una tragedia ogni volta che riascolto il disco perché comunque noto dei particolari che non mi soddisfano. Questa attenzione per l’aspetto sonoro emerge molto anche nel documentario, nelle scene della registrazione del disco quando si decide di fare certe scelte piuttosto che altre, riconsiderarle.
-Il “rockumentary” di Pierr Nosari era una esigenza o è stata una proposta che vi è piaciuta?
Pierr Nosari: Io avevo molta curiosità nei confronti degli ODP da quando un pomeriggio nel giugno del 2007 ho ascoltato ‘Tatranky’ che mi ha veramente lacerato. Ho pensato “Chi cazzo sono questi?”. Quindi il documentario è stata una mia proposta individuale. Così ho contattato gli ODP e ho seguito l’ultima data di ‘Socialismo tascabile’ a Marina di Ravenna, ed è lì che ho iniziato a lavorare su uno sguardo al loro lavoro. Il catalogo è stato una delle linee direttrici dell’estetica del documentario, io avevo notato che negli ODP c’era un progetto dal punto di vista musicale, un progetto dal punto di vista della scrittura ma anche un progetto molto importante dal punto di vista grafico, quindi ho seguito la grafica degli ODP e il concetto del catalogo. Il documentario è fatto come se fosse impaginato più che girato, ho cercato di rendere quello.
EF: All’inizio pensavamo che non saremmo arrivati più in là del #20, e siamo arrivati al #157. Il catalogo nasce con l’idea di fare qualcosa come se fosse una rivista, all’epoca, si parla del 2003 se non sbaglio, per me in particolare lo vedevo come qualcosa che si rifaceva alla Factory Records, l’etichetta dei Joy Division che numerava qualsiasi forma di uscita e tutto quello che veniva fatto e prodotto. Con l’andare del tempo poi mi sono reso conto che seguirlo può essere utile anche a noi stessi per guardarci indietro o ritrovarsi, anche se l’ordine cronologico prescinde dalla data di uscita penso che magari riguardarlo tra dieci anni sarà curioso e seguire questo percorso. Conosco qualche malato che collezionava tutti i numeri…
-...e il documentario è un numero del catalogo in cui venite descritti da una persona esterna…
EF: non è un numero del catalogo dal momento in cui si è voluta riconoscere assolutamente l’autonomia del lavoro di Pierr, ed è importante questa distinzione non perché questo documentario è una delle tante uscite ma una delle poche in cui un esterno si è in qualche modo insinuato negli ODP
-La vostra musica è qualcosa di molto intimo e personale. Come è stato farvi “spogliare” da uno sguardo esterno, farvi raccontare?
Max Collini : in realtà dipende dal punto di vista di ciascuno di noi, io personalmente in vari momenti delle riprese non mi sono quasi accorto che la telecamera fosse accesa, mi sono abituato all’idea che Pierr ogni tanto venisse a riprenderci ai concerti o a Bologna alla sala di registrazione e quindi ormai faceva parte della tappezzeria, non gli davo più tanta importanza a tal punto che non condizionava più il mio comportamento, potevo tranquillamente dormire sul divano o giocare a flipper. Lui probabilmente l’ha fatto come intenzione, ha sempre lavorato da solo cercando di non disturbarci, rendendosi il più possibile invisibile, proprio per non condizionare con la sua presenza il nostro lavoro. Guardando le riprese questa sera mi sembra che raramente possa trasparire dalle nostre facce il fatto che siamo osservati proprio come se lui avesse ripreso con la telecamera nascosta.
-Qual è l’approccio del regista. E’ un rockumentary perché si tratta di raccontare con un documentario una band rock?
EF: ci tengo a precisare che Pierr aveva l’assoluta libertà di fare il suo lavoro come voleva. Gli ODP hanno a che fare con tutto tranne che col ‘rock’. E’ un nome convenzionale per fare capire che si tratta di musica leggera nel 2008, poi c’è musica leggera e musica leggera. Penso comunque che se non ci fosse stato il ‘rock’ probabilmente non saremmo qui.
PN: Ho fatto un lavoro sui Massimo Volume e quello effettivamente era un rockumentary perché il linguaggio era quello. Con gli ODP è stato diverso. In questo caso per rockumentary si deve intendere l’ascolto delle immagini perché la musica ha un aspetto preponderante, io come regista ho cercato di rendere dal punto di vista musicale le immagini che avevo a disposizione, il lavoro che ho cercato di fare è stato questo. La cosa che più mi interessava era l’ascolto di ciò che si vede, per questo motivo secondo me si può parlare di rockumentary, anche se nel film come nella musica degli ODP il ‘rock’ non c’è come linguaggio. Era un mio intento capire perché proprio gli ODP avessero rappresentato questo tipo di caso all’interno della musica indipendente italiana. Non ho alcuna pretesa di spacciare questo lavoro per un documentario antropologico, sociale.
MC: Credo che dal documentario non traspaia poi questa grande riflessione, critica cervellotica o chissà quale studio in profondità ed è evidente che per ogni brano non possiamo fare sei mesi di seminario sulla musica elettronica piuttosto che sulla letteratura. Per quanto il lavoro sia stato molto pensato, responsabile e per noi importantissimo, la profondità, se c’è, è il frutto di quello che noi siamo come persone, come musicisti o come pseudo scrittori, nel mio caso. Ciò che abbiamo fatto fino ad oggi per arrivare poi a scrivere poi certi brani.
-Poi in realtà vengono esplorate anche delle canzoni come ad esempio ‘Sensibile’
PN: Sono tre i brani scelti per un lavoro più approfondito:‘Onomastica’ che ho avuto l’onore di ascoltare nel momento in cui veniva provata in studio per la prima volta, con minacce da parte di Enrico di non rivelare nulla sul nuovo brano (risate)…’Fermo!’ che è un “documentario vetero” come Max lo definisce ai concerti, e quindi straordinariamente vicino al nostro lavoro e poi appunto ‘Sensibile’ che è un pezzo che sento molto vicino dal punto di vista empatico. Ho montato dei materiali su dei pezzi che sono stati anche loro a guidarmi, anche se è stato molto casuale.
-Hai avuto delle ispirazioni particolari per il documentario o altri modelli di rockumentary?
PN: per questo documentario devo dire che i riferimenti sono uno cinematografico e l’altro artistico in senso lato. Il riferimento al cinema è Šarunas Bartas, un regista lituano che mi ha colpito molto sicuramente nella seconda parte del lavoro dove cerco di far parlare le immagini senza intervenire nel montaggio del dialogo. Mentre per quanto riguarda l’arte devo ammettere che ho nel dna l’opera di Joseph Beuys come artista, una persona che lavorava molto sui concetti. Non ho avuto dei modelli di altri rockumentary mentre per il documentario in generale un lavoro che veramente mi ha colpito sia stato ‘Quando eravamo re’ su Mohammed Alì, secondo me da qualche parte del documentario degli ODP c’è un po’ di quel lavoro.
-Che effetto fa cantare ‘Sensibile’ dopo che il tribunale di Roma ha sancito la libertà condizionale a Francesca Mambro?MC: Quando abbiamo registrato quel brano, di fatto, il loro percorso era già fuori dalla galera da un po’. La decisione del tribunale ha decretato una condizione che esisteva già. Ho scritto quel testo credo nel 2002, dopo aver letto il libro ‘A mano armata’ di Giovanni Bianconi che ripercorre la storia dei NAR. Non conoscevo bene la storia dei NAR e mi è venuta fuori questa cosa, che era una riflessione rispetto a una lettura così forte come quel libro. Sono persone che hanno poco più dei miei anni, ma quando io facevo le medie loro erano abbastanza grandi per poter vivere delle esperienze diverse dalle mie come gli anni di piombo che per fortuna non ho vissuto. Oltre alla strage di Bologna, alla quale molti riconoscono il beneficio del dubbio, c’è anche tutto il resto che è talmente grave, talmente violento e sanguinario che non può prescindere dal bene e dal male. Puoi avere vissuto l’epoca storica più violenta del dopoguerra, ma questo non distingue il bene dal male, e vale tanto per i NAR quanto per altri gruppi terroristici di diversa matrice storica o politica. Ora non voglio mettermi a sindacare sul fatto che loro devono stare in galera e altri no, ma certo la divisione tra bene e male è una divisione che nasce abbastanza presto, e quando vedo queste alzate di spalle o qualcuno che dice “voi non potete capire quegli anni perché non gli avete vissuti” mi viene da dire “ma perché no?”. Posso capire che fossero anni violenti ma certamente alcune cose che hanno fatto questi qua, anche se accadute all’interno di un contesto violento non possono essere giustificate. Oltretutto anche dal punto di vista morale hanno sempre tenuto molto a rivendicare il loro essere NAR, la loro diversità rispetto agli altri, la loro visione nichilista disinteressata, nessun compromesso e bla bla bla. Io ho letto quel libro e ne sono rimasto sfavorevolmente impressionato. Probabilmente il peggior gruppo in assoluto posto se si possa fare una classifica degli orrori.
-Avete avuto delle denunce o delle querele per questo brano?
MC: non ne abbiamo avute, probabilmente perché siamo una cosa non sufficientemente visibile per cui qualcuno si interessi a noi in questo senso. In ogni caso credo anche che sul testo non ci sia molto da discutere dato che le sentenze sono quelle. Per un fatto così terribile, che è una cosa un po’ fuori dal nostro ambiente, dal mondo che raccontiamo di solito è stato interessante lavorare attraverso la parola del vocabolario. Non penso che sia importantissimo il giudizio storico sui NAR, è una storia che raccontiamo perchè per noi riguarda argomenti non usuali. Credo solo che bisognerebbe fare uno sforzo per fare comprendere che queste due belle facce pulite non hanno alle spalle soltanto qualche errore di gioventù ma ben altro. A questo proposito basta leggere il sito sulla strage di Bologna che riporta senza dare giudizi la loro storia dal punto di vista politico, il modo in cui quegli omicidi furono compiuti: qualcosa che fa rimanere oggettivamente atterriti.
-Il caso discografico ODP:
MC: Sicuramente è un effetto positivo ma noi ci consideriamo comunque un gruppo domestico, e anche piuttosto provinciale. Ci tengo anche a smentire la solita leggenda sul fatto che noi siamo di Cavriago perché noi siamo di Reggio Emilia, da Cavriago vengono i Giardini di Mirò ma noi ODP siamo tutti nati e residenti a Reggio Emilia. Io ho fatto il primo concerto a 36 anni suonati mentre Enrico e Daniele hanno cominciato a suonare nell’adolescenza come spesso accade ma il nostro approccio è sicuramente molto tranquillo. Io ho dieci anni in più di loro e per me essere negli ODP è strano ma anche molto bello.
-Raccontate di vicende politiche che molta gente che viene a vedervi suonare non ha mai vissuto, se fossi un ventenne tra il pubblico ad un concerto cosa te ne faresti delle storie che raccontano gli ODP?
MC: La cosa stupefacente è che ci sono ragazzi ventenni che vengono ai nostri concerti. Probabilmente quello che raccontiamo a volte per loro è proprio un altro mondo, un altro pianeta, un’altra dimensione e forse anche in questa visione fantascientifica ci trovano delle curiosità e si chiedono “di che cazzo stanno parlando questi qua? Da dove vengono fuori”. Da provinciali che vanno a suonare fuori ci siamo resi conto che il mito dell’Emilia Rossa è molto più forte fuori di quanto lo sia nella sua terra d’origine, mentre per noi tutto ciò è normalità per altri non lo è. E poi l’Emilia non è un’isola che non ha contatti con il resto del mondo, quello che è successo altrove in qualche modo è passato anche da noi, forse abbiamo più anticorpi e sarà stato molto meno invasivo e prepotente che da altre parti, comunque è passato, non è che adesso a Reggio Emilia c’è la gente in strada con le bandiere rosse! C’è sicuramente una tradizione che in parte si è mantenuta, però con tutti i limiti di una tradizione culturale che in questo momento purtroppo è considerata decisamente perdente, e questo è molto pericoloso perché accettando l’idea che sia perdente si accetta anche di uniformarsi a dei valori altrui pensando che questi siano vincenti e me sembra un suicidio assoluto. Un ragazzo ventenne che viene ai nostri concerti se non ci conosce potrà trovarci molto strani, se ci conosce già e ci apprezza probabilmente lo fa anche grazie a tradizioni familiari, e non c’è bisogno di venire da Reggio Emilia per sentirsi vicini ad un certo filone, anche a Palermo c’è stata una forte tradizione sindacale, anche nel Veneto cattolico il PCI prendeva sempre il suo buon 20%. Noi parliamo ad una minoranza di appassionati di musica indipendente, gli ODP purtroppo non possono parlare a quello che tutto il giorno si ascolta Vasco Rossi. E’ ovvio che il nostro progetto non sempre può raccogliere l’attenzione di un pubblico vasto, diciamo massificato. Certamente è meglio piacere molto a pochissimi piuttosto che risultare carini e innocui a tutti quanti, qualche cosa che passa come una radiografia. La cosa importante per gli ODP è stata quella di farsi riconoscere subito agli ascoltatori per cui c’era chi non ci poteva soffrire e invece chi si appassionava tantissimo, e questo ci ha aiutato molto. Non siamo certamente un gruppo che fa restare indifferente chi lo ascolta. Non abbiamo però un intento pedagogico, quando noi raccontiamo storie sono le nostre storie. L’ideologia è un sottofondo per raccontare alle volte altro. Non è che noi domani facciamo un partito, non è questo l’intento, facciamo quello che ci piace fare ed è molto bello quando qualcuno si riconosce o quando qualcuno l’apprezza. Non abbiamo certo un progetto politico né siamo il classico gruppo militante tradizionale, io ho sempre ammirato molto gli Assalti Frontali o i Gang ma noi sicuramente siamo un gruppo diverso. Poi ognuno di noi tre ha le sue sfumature politiche all’interno del gruppo, non siamo un monolite. Io ho sempre avuto una posizione molto legata al PCI che adesso non esiste più, sono stato iscritto per anni ai DS ma ognuno di noi tre ha fatto il suo percorso, oltretutto apparteniamo a due generazioni differenti anche se non si può negare che siamo tutti dalla stessa parte. Adesso c’è questo vento terrificante, e preoccupano anche le contromisure a questo vento che sono un po’ deboli…forse è una cosa inevitabile, non lo so. Abbiamo una politica che è esattamente lo specchio della società, è la fotografia esatta di questo paese. Una volta la politica si proponeva un po’ più in alto, era una cosa molto seria e oggi è un’altra cosa. Io non voglio avere un approccio qualunquistico, non sono per la protesta in quanto tale ma non posso che prendere atto che quello che abbiamo è questo e quello che ci aspetta probabilmente è anche peggio. Siamo anche in un momento epocale da vari punti di vista, di solito sono momenti in cui nascono delle proteste molto grandi e molto caratterizzate ma in realtà non ho questa impressione. Nonostante tutto mi informo: guardo due o tre telegiornali al giorno, leggo i quotidiani, anche quelli della destra ma per me è molto difficile approcciarmi alla politica di oggi tendo a considerarla talmente poco interessante, talmente poco coinvolgente che quasi non me ne curo.
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